Parte I – Dalle origini al ‘900

Il paesaggio è il soggetto delle prima fotografia della storia. E’ il 1826, Joseph Niépce mette a punto la tecnica per fissare le immagini (sino a quel momento destinate a svanire dopo lo sviluppo) e dona al mondo la “vista dalla finestra a Le Gras”, ovvero il paesaggio visibile dalla finestra del suo studio fotografico.
 

La scelta di Niépce (e dei primi fotografi) di scattare una fotografia di paesaggio, ovviamente, è obbligata: i lunghissimi tempi di esposizione e l’impossibilità di spostare l’attrezzatura fotografica, limitavano la mobilità del fotografo e lo costringevano a ritrarre sopratutto oggetti immobili e alla portata della camera oscura. Ci vorranno anni prima che Tablot sottragga la fotografia alla sedentarietà e porti i fotografi verso paesaggi più “esotici” ma intanto i fotografi guardano al loro introno.

Il limite sedentario della fotografia è stato, a mio avviso, una opportunità per il neonato fotografo per iniziare ad osservare la propria città con occhi nuovi, con rinnovato interesse. In questo breve excursus vorrei quindi soffermarmi su alcuni degli autori che nel corso della storia della fotografia han avuto la sensibilità di soffermarsi sul paesaggio urbano in cui vivevano e la han reinterpretato alla luce delle opportunità tecniche che si presentati di volta in volta.


EUGÈNE ATGET

Eugène Atget è il primo grande interprete dei vicoli e straduzze di Parigi, fotografa durante la seconda metà dell’800 documentando così la città a ridosso dei profondi cambiamenti di modernizzazione che stanno per investirla e cambiarla definitivamente. Il punto di vista di Atget si caratterizza per aver ritratto la Parigi delle prime ore dell’alba, ancora dormiente, con le luci soffuse, desolata e sottratta alla frenesia “moderna”. Un lato di Parigi sconosciuto ai molti a cui lui, invece – in quanto artista di strada  e vagabondo – era molto legato. Ne viene fuori una prospettiva nostalgica e  romantica che interpreta in chiave estetica e teatrale l’architettura tradizionale in controtendenza rispetto ad in un periodo tutto proiettato verso il futuro e la modernizzazione.

Alcune delle sue lastre sono archiviate a questo indirizzo

 

Andando oltre oceano ritroviamo un altro pioniere della fotografia “di quartiere” è Jacob Riis (1849 – 1914) . Riis è un immigrante negli Stati Uniti che lavora in una pattuglia di polizia. E’ giorno e notte per strada, osserva la città e le sue attività ed è sempre al centro dei eventi più rilevanti. Grazie al suo lavoro, Riis entra negli angoli più angusti della città di New York, conosce i vicoli e le sue storie che decide di raccontare attraverso la fotografia. Mette in scena così un volto della metropoli sconosciuto in quel periodo, ritrae la povertà, i vagabondi e i reietti de-costruendo così l’idea patinata del sogno Americano. L’importanza del lavoro di Riis trova la sua conferma ne 1889 con la pubblicazione del suo primo libro fotografico How the Other Half Lives (visibile integralmente qui https://www.historyonthenet.com/authentichistory/1898-1913/2-progressivism/2-riis/index.html).

In Italia sono i conti Primoli che detengono il primato di nuovi osservatori delle città ma con una intenzionalità e risultati diversi rispetto a Atgat e Riis. Appassionati dalla vita di società, i conti Primoli “scendevano” tra la stradine della città come se si stessero recando allo zoo: il loro approccio è sicuramente voyeristico e la scesa nei vicoli poveri  era finalizzata al bisogno di ricercare immagini interessanti. Nonostante le intenzioni amatoriali che sostengono l’azione fotografica, non si può negare l’interesse e la curiosità verso la città che han spinto questi borghesi a soffermarsi sulla città, i suoi vicoli e popolazione. E’ innegabile, inoltre, il valore dell’eredità fotografica che l’archivio Primoli offre di una Italia altrimenti poco ritratta (http://www.archivioprimoli.it/root/archivio/archivio.asp)

Parte II – la nascita del colore

Il colore in fotografia viene messo sul mercato già dagli anni ’30 del novecento ma dovremo attendere oltre venti anni affinché sia impiegato ai fini estetici ed artistici. La fotografia a colore, infatti, era rilegata ad impieghi “amatoriali” e “commerciali”. Secondo gli standard estetici e documentari dell’epoca, forme e i contenuti della foto dovevano dominare l’immagine e si esprimevano solo con l’impiego del  bianco e nero; il colore, invece, era considerato una distrazione che distoglieva lo sguardo dalla lettura dell’immagine.



In questo senso William Eggleston mette in opera una vera e propria rivoluzione estetica essendo il primo ad impiegare il colore per finalità artistiche. Eggleston lavora negli anni ’60, in piena epoca di espansione della pop art, della cultura di massa e del consumismo. Influenzato dal Factory di Andy Wharol e vivendo l’onda pop, sviluppa una inedita osservazione del quotidiano: non più le forme o i contenuti al centro dell’immagine ma bensì i colori come motore del suo procedere fotografico. Eggleston espropria i suoi soggetti di una qualsivoglia dimensione ideologica e concettuale: gli oggetti di tutti giorni parlano attraverso la manifattura e colori e non c’è bisogno di attribuirli un significato, è questa una operazione affidata all’osservatore. Il suo sguardo si sofferma su oggetti non ovvi, banali che fissati in una immagine diventano strani e straordinari.

Profondamente influenzato dal lavoro di Eggleston è Steven Shore la cui opera lo rende uno degli esponenti della neotopografia. Anche Steven Shore utilizza il colore come marchio di fabbrica ma a questo aggiunge un punto di vista insolito: quello interno. La sua idea è fotografare la realtà esattamente dal punto di vista in cui lui la osserva: niente inquadrature, niente regole di composizione ma il mondo dalla sua prospettiva, la prospettiva dei suoi occhi: come se più che delle fotografie stesse producendo degli screenshot della realtà. Nasce cosi il suo più celebre lavoro: American Surfaces: “Praticamente fotografavo ogni piatto che mangiavo, ogni persona che incontravo, ogni letto in cui dormivo e ogni bagno in cui orinavo” ne viene fuori un diario visivo che è anche una accurata descrizione del paesaggio urbano americano e della società.

Una iniezione di paesaggi e colori nuovi giungono, con qualche anno di scarto, anche in Italia.

(Viaggi in Italia – Olivo Barbieri)

Per anni l’unica rappresentazione dell’Italia è quella delle cartoline di Alinari, turistica, patinata e fatta per essere bella. Dalla pinacoteca di Bari, una nuova generazione di fotografi, diventa fondatrice di nuova forma di realismo che guarda alla realtà senza “arredarla”, un progetto che mira a rifondare la fotografia paesaggistica e che trova il suo sbocco in Viaggio in Italia (1984). Le periferie, i capannoni abbandonati, i ruderi e tutti i territori abbandonati diventano i protagonisti degli scatti di venti fotografi (Luigi Ghirri, Gabriele Basilico, Mimmo Jodice, Guido Guidi, Mario Cresci, Roberto Salbiati, Vincenzo Castella, Giovanni Chiaromonte)  tra cui Olivo Barbieri ospite del Libroscopio il 5 Febbraio al Palazzo della Cultura di Noicàttaro.

Parte III – Paesaggi Post-moderni

Ancor oggi le nuove tecnologie continuano a sfidare l’idea del paesaggio e ci invitano a ripensare i nostri luoghi in modo inedito.
Una tendenza ancora che sboccia appena, di cui, pertanto, è difficile definire. Joan Fontcuberta è, senza ombra di dubbio, il miglior interprete e più chiaro teorico. Nel suo più importante saggio “La furia delle immagini. Note sulla post-fotografia”, Fontcuberta teorizza la nascita dell’immagine fluida, una immagine cioè smaterializzata che sfida il concetto di proprietà, autorità e originalità. Il digitale ha reso il web una risorsa inesauribile di immagini (ogni giorno su Flicker vengono caricate più immagini di quante un uomo sarebbe capace di vederne in una settimana), che senso ha fotografare ancora? E’ ancora utile produrre delle immagini in senso classico? Non sarebbe meglio riciclare le immagini, iniziare “l’ecologia delle immagini”?

 

All’interno di questo impianto teorico si collocano alcuni dei progetti fotografici sviluppato negli ultimi anni che, appunto, sfidano la fotografia tradizionale ridefinendo lo strumento di osservazione.

In Sun from Flicker (2006), Penelope Umbrico, utilizza tutte le immagini di tramonto che riesce a scaricare da Flicker, questo grande contenitore di immagini per produrre un nuovo tramonto riciclato. Che senso ha continuare a fotografare tramonti quando a sua disposizione ne ha oltre  500.000 immagini? Il suo tramonto è un collage di queste immagini che mette in questione il senso della fotografia ma anche dell’osservazione.

Sulla stessa scia si pone l’opera Dutch Landscapes (2011) di Mishka Henner e O Campo (2010) Joachim Schmid. Entrami i progetti sono sviluppati graze all’utilizzo di Google Earth, un software che genera immagini virtuali della Terra utilizzando immagini satellitari. Schmind ricerca campi da football dei paesi del terzo mondo che, a causa di architetture improvvisate, sono soggetti a distorsione rispetto il rettangolo regolamentare; Mishka, allo stesso modo, scruta l’epidermide del nostro pianeta alla ricerca di aree riservate che subiscono camuffamenti digitali per essere censurate. Ne risulta così la scoperta di nuovi scenari e paesaggi trasformati dall’intervento umano digitale.

Umbrico, Mishka e Schmid riescono a ritrarre e documentare il mondo senza muoversi da casa ma senza per questo rinunciare ad una osservazione personalissima e particolarissima del paesaggio.

 

 

(Dutch Landscapes di Mishka Henner)

 

(Dutch Landscapes di Mishka Henner)


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