C’era una fonte senza un filo di fango, dalle acque argentate e trasparenti, a cui mai si erano accostati pastori o caprette portate al pascolo sui monti o altro bestiame, che mai era stata agitata da un uccello o da un animale selvatico o da un ramo caduto da un albero. Tutt’intorno c’era erba rigogliosa per la vicinanza dell’acqua, e una selva che mai avrebbe permesso a quel luogo di essere intiepidito dal sole.

Qui il fanciullo, spossato dalle fatiche della caccia e della calura, si getta bocconi attratto dalla bellezza del posto e dalla fonte, ma mentre cerca di sedare la sete, un’altra sete gli cresce: mentre beve, invaghitosi della forma che vede riflessa, spera in un amore che non ha corpo, crede che sia un corpo quella che è un’ombra. Attonito fissa se stesso e senza riuscire a staccare lo sguardo rimane immobile come una statua scolpita in marmo di Paro. Disteso a terra contempla le due stelle che sono i suoi occhi, e i capelli degni di Bacco, degni anche di Apollo, e le guance impuberi e il collo d’avorio e la gemma della bocca e il rosa soffuso sul candore di neve, e ammira tutto ciò che fa di lui un essere meraviglioso. Desidera, senza saperlo, se stesso; elogia, ma è lui l’elogiato, e mentre brama, si brama, e insieme accende e arde.

Quante volte non dà vani baci alla fonte ingannatrice! Quante volte non tuffa nell’acqua le braccia per gettarle attorno al collo che vede, ma nell’acqua non si afferra! Non sa che sia quel che vede, ma quel che vede lo infiamma, e proprio l’errore che gli inganna gli occhi glieli riempie di cupidigia.

Ingenuo, che stai a cercare di afferrare un’immagine fugace? Quello che brami non esiste; quello che ami, se ti volti, lo fai svanire. Questa che scorgi è l’ombra, il riflesso della tua figura. Non ha nulla di suo questa immagine; con te è venuta e con te rimane; con te se ne andrebbe – se tu riuscissi ad andartene!

Né desiderio di cibo, né desiderio di riposo riesce invece a cacciarlo da lì. Buttato sull’erba ombrata fissa con sguardo mai sazio la forma ingannevole e si strugge attraverso i propri occhi.

[…]

E mentre si lamenta si tira giù l’orlo superiore della veste e con i palmi marmorei si batte il petto nudo. Il petto, percosso, si tinge di un tenue rossore, così come i pomi, bianchi da una parte, dall’altra rosseggiano, o come l’uva, in grappoli cangianti, si vela, quando matura, di un colore porporino.

A quella vista (l’acqua è tornata limpida) non resiste più. E come cera bionda a una leggera fiamma, come brina mattutina al tepore del sole, così, sfinito dall’amore, si strugge e un fuoco occulto a poco a poco lo consuma.

E ormai non ha più il suo colorito, rosa misto a candore, non ha più vigore e forze né ciò che prima tanto piaceva a vedersi, e il corpo non è più quello di cui un giorno si era innamorata Eco.

[…]

Reclinò il capo stanco sull’erba verde. La morte buia chiuse quegli occhi che ancora ammiravano la forma del loro padrone. Anche dopo, quando fu accolto nella sede infernale, continuava a contemplarsi nell’acqua dello Stige. Levarono lamenti le Naiadi sue sorelle; si tagliarono i capelli e li offrirono al fratello. Levarono lamenti le Driadi. Ed Eco risonando si unì a quel coro di dolore. E già preparavano il rogo, e le fiaccole da agitare, e il feretro: il corpo era scomparso. Al posto del corpo trovarono un fiore: giallo nel mezzo, e tutt’intorno petali bianchi.

(Ovido, Metamorfosi, III, 407-510 – traduzione di Piero Bernardini Marzolla)


The death of Narcissus
Jehan Georges Vibert Musée des Beaux-Artsdi Bordeaux (Francia).

Sulla base della teoria filosofica enunciata da Pitagora alla fine dell’opera: tutto muta, nulla si distrugge (15, 165), le Metamorfosi di Ovidio raccontano una storia di incessante fusione tra la natura umana e il paesaggio naturale: il fiore narciso che conosciamo è il frutto della trasformazione, attraverso una corrispondenza perfetta, in un elemento paesaggistico di quello che prima era un essere umano con le sue caratteristiche tanto particolari quanto rappresentative.

Per di più in questa metamorfosi emerge una vera e propria empatia tra il protagonista e il tipo di paesaggio di cui va alla ricerca e in cui si sente a casa. Il carattere di Narciso è infatti raffigurato attraverso le caratteristiche del paesaggio riportate: la fonte è pura poiché priva di fango e poiché nessun essere prima di Narciso vi ha bevuto, il bosco circostante è fitto e non lascia passare i raggi del sole. Come il luogo è intatto (non è mai stato frequentato da nessuno), così anche Narciso rifugge il contatto con l’altro, rinchiudendosi nella solitudine di chi vede l’alterità in se stesso.

Ricercando i colori adoperati per descrivere il paesaggio, troviamo il verde netto dell’erba e l’argento puro dell’acqua. Il verde è il colore rassicurante della fertilità e dell’eternità.

L’argento è un bianco splendente, che riflette dunque la luce, come fa l’argentea luna, ed è il vero punto di contatto tra il paesaggio e Narciso, un passaggio diretto tra il luogo e l’uomo. Narciso, infatti, viene descritto con la pelle bianchissima (il collo d’avorio, il candore di neve, i palmi marmorei). Il bianco assimila la fonte a Narciso, con la differenza che il bianco della fonte è anche capace di riflettere: riflette appunto l’immagine di Narciso. Il bianco, sommando in sé tutte le altre tonalità, è colore della totalità e dell’assoluto, che lo rende intrinsecamente partecipe all’immagine del divino e alle rappresentazioni del trascendente.

Tuttavia il banco della pelle di Narciso, che inizialmente mostra solo una leggera variazione di rosa soffuso, lascia progressivamente posto ad un altro colore. Divampa sempre più sulla sua pelle il rossore, simbolo dell’amore e delle fiamme che ardono dentro di lui, e crea un netto contrasto con il bianco. Per rappresentare questo contrasto di colori, Ovidio ricorre a similitudini con elementi attinti dal mondo della natura (i pomi e l’uva che maturano e rosseggiano), mettendo, ancora una volta, in forte relazione l’essere umano con il paesaggio.

Natura morta, Claude Monet

Così all’esterno sta la sicurezza del verde e l’opacità della selva, all’interno di Narciso il chiarore della fiamma che, tradendolo, affiora sulla pelle con lo sgomento del rossore.

La prima caratteristica che Narciso perde progressivamente, mentre si avvicina al momento della morte, è proprio il suo colorito bianco e roseo.

E ciò che dopo resta di Narciso è soprattutto un colore: il giallo del fiore in cui Narciso si trasforma, con un’esplosione di chiarore. Il giallo è infatti associato alla luce, soprattutto quella solare, che da una sorgente centrale si irradia verso tutte le direzioni. Col giallo possiamo identificare un impulso centrifugo di apertura, liberazione e fuga, esattamente all’inverso rispetto al movimento centripeto e di implosione che riconosciamo in Narciso e in quel luogo da lui scelto.

Il giallo in cui si trasforma Narciso era espressamente assente dal mondo ombroso da lui ricercato, a cui erano preclusi i raggi solari, ma forse appariva in frammenti nei suoi occhi definiti dal poeta come due stelle. Il giallo del fiore, dunque, sembra quasi l’esplosione della luce che Narciso nascondeva dentro di sé e che lo metteva, forse, in sintonia con il paesaggio ombroso in modo complementare.

Un suggerimento di lettura

L. FALCINELLI, Cromorama. Come il colore ha cambiato il nostro sguardo, Einaudi 2017.

https://www.einaudi.it/catalogo-libri/arte-e-musica/arte/cromorama-riccardo-falcinelli-9788806235932/

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