Distopia urbana in Orazio

Iam pauca aratro iugera regiae
moles relinquent, undique latius
extenta visentur Lucrino
stagna lacu platanusque caelebs

evincet ulmos; tum violaria et
myrtus et omnis copia narium
spargent olivetis odorem

fertilibus domino priori;

tum spissa ramis laurea fervidos
excludet ictus. Non ita Romuli
praescriptum et intonsi Catonis
auspiciis veterumque norma.

Privatus illis census erat brevis,
commune magnum; nulla decempedis
metata privatis opacam
porticus excipiebat Arcton,

nec fortuitum spernere caespitem
leges sinebant, oppida publico
sumptu iubentes et deorum
templa novo decorare saxo.

“Le grandi case regali lasceranno poco spazio all’aratro, ovunque si vedranno piscine più estese del lago Lucrino e il platano sterile vincerà sugli olmi, allora viole e mirto e ogni abbondanza di aromi spargeranno profumo in quelli che un tempo erano oliveti fertili per il loro padrone. Allora i fitti rami dei lauri terranno lontani i dardi roventi del sole. 

Non fu questo il volere di Romolo e di Catone, non fu questa la legge dei padri: un tempo era piccola la ricchezza dei privati e grande quella pubblica. Nessuna loggia privata accoglieva l’ombra dell’Orsa. Le leggi non permettevano di disprezzare una dimora ordinaria, ma disponevano che con il denaro pubblico venissero adornati il centro della città e i templi degli dei” (Orazio, Odi II, 15).

 

Foro romano ricostruito

In quest’ode di Orazio la descrizione della conformazione urbanistica della città di Roma, collocata in un futuro prossimo e distopico, diviene immagine di una nuova coscienza civica del cittadino in cui sullo spirito comunitario della cura del bene pubblico prevale l’individualismo del lusso privato. 

La prima parte dell’ode presenta una serie di opposizioni tra quello che dovrebbe offrire un paesaggio urbano secondo il poeta e quello che invece sta prendendo piede, in relazione all’edilizia e alle aree verdi: i terreni saranno sempre più destinati alla costruzione edilizia e sempre meno alla coltivazione, gli specchi d’acqua artificiali supereranno quelli naturali, e alberi e piante ornamentali soppianteranno gli alberi che portano frutto. Da queste opposizioni la natura sembra configurarsi come autentica e produttiva, mentre il lusso e la frenesia edilizia come inerte, oziosa ed eccessivamente sofisticata. 

Nella seconda parte Orazio colloca, invece, nel passato remoto (quello di Romolo e di Catone il censore), come in una dimensione ormai lontana, il rovesciamento di questo scenario distopico, in cui il cittadino dedicava cura e attenzione agli spazi pubblici e agli edifici della vita comunitaria più che ai beni privati.

Quello della città è dunque uno spazio da cui Orazio si sente sempre più distante e da cui cerca di fuggire, trovando riparo nel mondo marginale della campagna, un locus amoenus che ospita convivialità, riposo e riflessione. La netta opposizione tra città e campagna emerge dalla favola del topo di campagna e del topo di città, in cui la visita in città del topo di campagna viene così descritta:

era già nottefonda, quando i due topi entrarono in un ricco palazzo, dove una tovaglia bianca, con dei disegni rossi, brillava su letti d’avorio e dove erano rimasti molti avanzi da un grande banchetto messi da parte in cesti ammonticchiati. Dunque il topo di campagna, dopo che fece distendere sulla tovaglia purpurea il topo di campagna, si mise a trotterellare con un vestito succinto, come fosse di casa, e a portare in continuazione vivande, pregustando, come fanno i servi, ogni piatto che portava. Il tipo di campagna, standosene sdraiato, si rallegrava della nuova sorte, e per quelle squisitezze, quando un gran sbattere di porte li fece saltare giù dal divano. Impauriti, correvano per tutta la sala da pranzo e tremavano sempre più tramortiti, mentre l’alto palazzo risuonava per il latrato dei cani. Allora il topo di campagna disse: questa vita non fa per me. Stammi bene: la campagna mi proteggerà da questi pericoli e mi consolerà con un piatto di umili lenticchie (Orazio, Satire II, 6).

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